Festival del film di Locarno 2012

di

Vittorio Agnoletto

 

Che il cinema non possa ridursi ad una fotografia del presente è un’ovvietà; ed altrettanto ovvio è affermare che se l’industria cinematografica può certamente rappresentare un’opportunità di evasione non è riducibile solo a questo. I film hanno da sempre rappresentato anche la possibilità di leggere con spirito critico e fantasioso il presente e d’immaginare ipotetici futuri.

Il festival del cinema di Locarno si è fino ad ora differenziato dai tanti appuntamenti simili, presenti in  giro per il mondo, per la sua collocazione di confine: un festival inserito nei circuiti ufficiali del mainstream, sostenuto da sponsor di ogni tipo, ma con una particolare attenzione ai temi sociali e all’attualità politica. Non c’è dubbio che questa sensibilità sia sempre stata in equilibrio  con le necessità imposte dal mercato, dai vincoli commerciali e dai rapporti con le grandi case distributrici, ma non è mai venuta meno.

L’anno scorso, ad esempio, molte erano le pellicole che trattavano il tema dell’immigrazione nei suoi differenti aspetti collocandolo definitivamente come uno delle principali caratteristiche del XXI secolo.

Solo per fare degli esempi è sufficiente ricordare:“Bachir Lazhar” del canadese Philippe Falardeau, narrava la vita di un immigrato algerino assunto in una scuola elementare; Aki Kaurismaki in “Le Havre” raccontava di un lucidascarpe impegnato ad aiutare la fuga di un ragazzino africano inseguito dall’ottusità del potere costituito; “Low life” di Nicolas Klotz ed Elisabeth Perceval ricordava le lotte in difesa dei migranti condotte da un gruppo di giovani francesi; Marco van Geffen in “Onder ons” (Among us) parlava di due giovani polacche emigrate in Olanda; “Volo special” di Fernand Melgar descriveva la vita degli immigrati rinchiusi nel centri di detenzione amministrativa in Svizzera; senza dimenticare il seppur discusso Sette opere di misericordia, dei fratelli Massimiliano e Gianluca De Serio.

Quest’anno non è stato semplice trovare un film che avesse come tema dominante l’emigrazione che ritroviamo tutt’al più come sfondo al racconto di avvincenti vicende personali come ad esempio in due bei film quali: “Der Glanz Des Tages” di Tizza Covi e Rainer Frimmel e “Un Estonienne A’ Paris" di Ilmar Raag.

La crisi della politica, la lontananza dei partiti e della vita istituzionale dal sentire comune, la difficoltà, se non l’impossibilità, di coniugare etica e politica erano stati anch’essi temi centrali in molte pellicole dello scorso anno tra le quali “El studiante” di Santiago Mitre e “Senorita” del filippino Vincent Sandoval. Il tema quest’anno sembra rimosso.

Proprio quella particolare sensibilità alle tematiche sociali, rinnovata ogni anno, aveva trasformato Locarno, nella prima metà di agosto, anche in un punto d’incontro di una parte significativa dell’intellettualità della sinistra italiana, quell’intellettualità diffusa, lontana dai richiami di Capalbio, allergica ai salotti radical chic, ma dotata di una forte curiosità culturale.  

Oggi l’Europa (e non solo) si dibatte in una drammatica crisi sociale ed economica, giunta ormai al terzo anno; una crisi che sta modificando il tenore e le abitudini di vita di centinaia di milioni di persone. Per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, in gran parte del nostro continente le generazioni presenti e future vivranno peggio dei loro genitori: la Storia non coincide più con un progressivo miglioramento delle sorti dell’umanità e cambiano quindi radicalmente anche le attese verso il futuro

Ma chi quest’anno ha partecipato alla 65° edizione del festival di Locarno non ha ritrovato traccia di tale condizione umana.

Non un film che abbia come scenario di fondo l’attuale crisi, non una pellicola sugli interrogativi che collettivamente ci angosciano.

Non invoco certo un festival segnato dal realismo socialista di passata memoria; semplicemente cerco tra le decine e decine di pellicole qui presentate qualcuna che attraverso le peculiarità del mezzo cinematografico mi stimoli una riflessione sul possibile destino del nostro continente e di chi, oggi, lo abita. Cerco, ma non trovo.

L’unica pellicola che parla delle difficoltà odierne nel modo del lavoro è  “The Mass of Men “ (Gran Bretagna) di Gabriel Gauchet presentato nella sezione “I Pardi di domani” e  vincitore del Pardino d’oro per il miglior cortometraggio internazionale: 16 minuti, ma di grande coinvolgimento.

La famiglia, nella sua ambivalenza di istituzione violenta e costrittiva ma anche protettiva e rassicurante, e la vecchiaia, età ampiamente dilatatasi negli ultimi decenni, sembrano occupare il centro di gravità di questo festival e solo attraverso queste lenti è possibile cogliere sullo sfondo qualche segno della crisi odierna.  

Un’ interessante eccezione è “Image Problem” (Svizzera) di Simon Baumann e Andreas Pfiffner,  nel quale, attraverso numerose interviste a cittadini elvetici,  vengono messe a nudo l’enormi contraddizioni presenti in Svizzera: Paese di valli, formaggi e allevamenti, di quiete, ordine e pulizia, ma anche terra di segreti bancari, speculazioni finanziarie e sede di numerose corporation che sfruttano l’estrazione di ricchezze in ogni parte del mondo depredando le popolazioni locali.

Anche film e/o documentari sugli eventi storico-politici degli ultimi anni sono quasi completamente assenti, seppur con qualche eccezione per altro non sempre meritevole di lodi. E’ il caso di Libya Hurra (Austria) di Fritz Ofner, che racconta le ultime settimane della rivolta anti Gheddafi:  una pellicola più simile ad un video di  propaganda dei ribelli, senza alcun tentativo di approfondimento delle ragioni della guerra e delle forze in campo. Nulla a che vedere con “Tharir” di Stefano Savona che tanto interesse suscitò lo scorso anno.

Degno di segnalazione Far From Afghanistan prodotto da cinque registi indipendenti statunitensi John Gianvito, Jon Lost, Minda Martin, Soon- Mi Yoo, Travis Wilkerson, in collaborazione con giovani giornalisti afgani; una spiegazione precisa delle forze in campo, del numero delle vittime, delle conseguenze della guerra sul commercio dell’oppio come delle armi, che si conclude con le drammatiche testimonianze di alcuni parenti di militari americani rientrati dalla guerra ed incapaci di reinserirsi nella vita di tutti i giorni fino ad arrivare ai ben noti casi di suicidi. Un documentario interessante, ma un po’ troppo didascalico nel fornire notizie per lo più già note, senza particolari approfondimenti sulle ragioni del conflitto e reso talvolta di non facile comprensione anche per l’uso di un linguaggio ufficiale statunitense, slang,  risultato, in alcuni passaggi, incomprensibile a gran parte del pubblico. Resta l’importanza  di una coproduzione di registi americani e giornalisti afgani che cerca di rompere il muro di silenzio che, anche negli USA, continua ad essere rigidamente bipartisan.

Nessun film, né alcun documentario racconta, a differenza di quanto avvenuto nelle edizioni passate del festival, i movimenti sociali apparsi sulla scena negli ultimi due anni: dai Occupy Wall Street agli indignados.

Non so quanto di queste assenze di tematiche sociali e politiche siano imputabili a scelte della direzione artistica o quanto siano dovute ad una ridotta produzione di pellicole su tali argomenti. È un dato di fatto che il risultato sia stato una perdita di specificità del Festival di Locarno e una sua maggior omologazione agli altri grandi festival del cinema, con un ruolo sempre più preponderante dell’aspetto commerciale finalizzato anche ad ottenere un significativo aumento, per altro esplicitamente auspicato, di pubblico. Sarà interessante verificare il prossimo anno se questa sarà la strada definitivamente scelta o se Locarno riuscirà a mantenere quel suo particolare equilibrio che ha fino ad ora costituito per molti la ragione prima d’interesse.

Miglior sorte ha avuto il filone storico-politico presente con un numero ridotto di film ma interessanti e ben realizzati.

“Capitaine Thomas Sankara” (Svizzera), di Christophe Cupelin è un documentario sul presidente del Burkina Faso dal 1983 all’87, assassinato il 15 ottobre 1987 insieme a dodici ufficiali, in un colpo di stato realizzato con l’appoggio di Francia ed USA, la cui organizzazione da più parti viene attribuita ad un suo ex compagno d'armi e suo grande amico, Blaise Compaoré  succedutogli al potere e ancora oggi presidente del Burkina Faso; di estremo interesse, ed ancora drammaticamente attuali, suonano le parole pronunciate da Sankara durante una sessione delle Nazioni Unite: un discorso di critica durissima del neocolonialismo e dell’operato di alcune istituzioni internazionali quali Banca Mondaile e FMI.

Operation Libertade” (Svizzera) di Nicholas Wadimoff, non è un documentario, ma un film che ricostruisce l’azione condotta in Svizzera nel ’78 dal Gruppo Autonomo Rivoluzionario (GAR) con l’obiettivo di dimostrare il rapporto esistente tra il sistema bancario svizzero e le dittature latinoamericane. Il totale silenzio stampa di tutti i media elvetici che in quei giorni riferiscono ampiamente del rapimento Moro avvenuto nello stesso periodo, ma tacciono sul rapimento di un uomo dei servizi segreti paraguaiani avvenuto durante l’operazione condotta dal GAR, è destinato a modificare totalmente i piani del gruppo.

“No” (Cile/Stati Uniti/ Messico) di Pablo Larrin racconta di come l’opposizione cilena riuscì a vincere il plebiscito indetto dal dittatore Pinochet il 5 ottobre 1988 per chiedere la conferma al potere per altri otto anni. Il film ruota attorno al confronto tra le differenti strategie comunicative proposte dai leader dell’opposizione e da un giovane pubblicitario incaricato di gestire la campagna. Una discussione che, ovviamente tenuto conto delle macroscopiche differenze delle situazioni storiche, potrebbe suggerire più di uno spunto per un confronto, utile anche nell’epoca odierna, sulle strategie comunicative della sinistra italiana.

Di indubbio interesse tutta la sezione Open Doors dedicata ai film dell’Africa francofona: alcune pellicole sono di grande valore sia per l’aspetto artistico che sotto il profilo storico, tra i tanti titoli è sufficiente citare  Samba Traore’ “ (1992, Burkina Faso/Francia/Svizzera) di Idrissa Ouedraogo  e “Soleil O’ “ (1969 Francia/Mauritania) di Med Hondo.