“Doruntina” di Ismail Kadare

di

Davide Rossi

Sono i tempi in cui ancora Costantinopoli è capitale dell’Impero Romano d’Oriente, quando Doruntina decide di sposarsi lontano da casa e tra i suoi nove fratelli il più giovane, Costantino, promette alla madre che andrà a prendere la sorella quando desidererà vederla. L’idea di un matrimonio a due, quattro, sette montagne di distanza è una forte innovazione per il popolo schipetaro, certo per Doruntina è incredibile scoprire che la distanza tra la sua casa d’infanzia e quella da maritata è di mezzo continente europeo. La peste tuttavia, portata con le armi dai normanni, stermina tutti e nove i fratelli. Così come tutti i partecipanti alla guerra, vincitori e vinti. La madre sulla tomba di Costantino lo maledice per non aver mantenuto la promessa, allora, secondo una celebre leggenda albanese, il giovane esce dal sepolcro, recupera la sorella e la riporta a casa. Sui fatti, quando in cielo “cornacchie volano basse gracchiando nell’aria autunnale” e “i mucchi di fieno si disfano con aria triste sotto il vento che porta la brina”, prende a indagare il capitano Stres, mentre “lutto e abbandono esalano dalla lugubre residenza della famiglia nobiliare dei Vranaj”. Le razionali indagini del capitano diventano così l’argomento per il romanzo scritto da Kadare nel 1979. Arrivata sulla porta di casa, Doruntina viene infatti depositata dal cavaliere, che l’ha accompagnata senza mai guardarla negli occhi e, impolverato com’era, si dirige verso il cimitero, dopo un viaggio lungo una notte interminabile, dalla Boemia all’Albania, fatto che già solleva dubbi all’indagatore, essendo necessari diversi giorni e diverse notti per percorrere il tragitto. Quando la madre apre la porta di casa e trova la figlia viene travolta dall’emozione e muore, seguita a breve dalla figlia stessa. Il capitano fa in tempo a interrogare Doruntina e a rimanerne affascinato. La morente ha negli occhi “dolore, spavento, dubbio o qualche pensosa nostalgia”, ma non solo, “vi restava posto per altro ancora, un sentimento sconosciuto, o che forse sembrava tale perché era un miscuglio di tutti gli altri” e racconta che “lungo la strada, incollata al cavaliere, ha osservato più volte i capelli dell’uomo, coperti di polvere e anche di fango appena seccato, il suo corpo emanava un odore di terra bagnata”. I funerali delle due donne, madre e figlia, non dissimilmente da quello dei nove fratelli, si svolge come “un incubo in piena tenebra”, al contrario del matrimonio di Doruntina con il nobile boemo, perché vi sono avvenimenti che “il tempo ha la facoltà di rendere più belli, non perché essi siano indimenticabili in sé, ma perché hanno il dono di racchiudere tutto ciò che del passato è bello o ritenuto tale e che non è più”. Nel cimitero, in cui le icone seminterrate emanano una pacata tristezza, la pietra di Costantino è spostata, non divelta. Anche gli alberi sono lacrimevoli e si liberano delle ultime gocce di pioggia muovendo i rami, “mentre gli alti pioppi scuotono lugubremente le ultime foglie.” La leggenda albanese molto irrita il potere bizantino che è appena uscito dalla “ardente diatriba sul sesso degli angeli” e non vuole altri problemi di natura teologica, meno che mai uno che sovverta il principio della resurrezione, sancito esclusivamente per l’ultimo giorno, quello del giudizio. Le questioni di fede non sono infatti in nessun modo emendabili, figurarsi la presunta resurrezione di un giovane neppure troppo credente. Già Costantinopoli era stata, per altre vicende religiose, “teatro di una guerra civile che si sarebbe certamente volta in carneficina.” Il laico Stres, all’inizio un po’ sbrigativamente, reputa le storie sul fratello uscito dalla tomba per recuperare la sorella delle semplici dicerie, fomentate da una specie di isteria collettiva a cui prestar poco conto, ma il potere tanto temporale quanto religioso è assolutamente di diverso avviso, il principe e il vescovo vogliono che venga catturato il trasportatore di Doruntina, ne vogliono la confessione pubblica e la pubblica condanna. Così, mentre “gli arbusti rabbrividiscono per la tramontana, sotto il coperto cielo autunnale e il loro ondeggiare accresce la desolazione della pianura” e mentre “le piogge ottobrine riempiono le pozze sulle strade di foglie marce”, il capitano è obbligato ad attraversare l’Albania in cerca di un responsabile, per quanto lui resti convinto che tutta la storia nasca dal desiderio molto umano di voler abbracciare qualche caro scomparso, un desiderio che “costituisce una delle maggiori tristezze di questo povero mondo, tristezza che continuerà ad avvilupparlo come nebbia fino alla sua estinzione”. Ligio al dovere comunque il capitano trova un povero mercante maltese di icone che attraversa i Balcani, il quale, capito il suo destino, pur di subire la condanna a morte senza essere torturato, si dichiara reo confesso. Tuttavia il capitano, decidendo di torturarlo, scoprirà l’amara verità, ovvero che il maltese non ha mai conosciuto Doruntina. I suoi superiori ovviamente lo obbligano al silenzio e ad attenersi alla versione ufficiale. La notizia dell’arresto intanto si propaga con inusitata velocità, “a causa del freddo la gente si spostava di meno, ma, stranamente, la voce correva con la stessa alacrità che avrebbe avuto con tempo più clemente. Si sarebbe detto perfino che, rappresa dal freddo invernale, cristallina e scintillante, corresse più celermente delle voci estive, forse perché non esposta, come quelle, all’afa umida, al sopore dell’intelletto, alla dissipazione delle energie”. Tuttavia l’antica tradizione albanese della besa, ovvero della fedeltà alla parola data, prende il sopravvento tra le spiegazioni, così come “una follia collettiva si inebriava del miscuglio di vita e di morte, tanto che molti prendono a parlare con frequenza di un tempo in cui vivi e morti, uomini e divinità, convivevano e talvolta si sposavano, generando esseri ibridi”, sebbene, a scanso di inquisitori ecclesiastici, si sottolineasse che quell’epoca certo non sarebbe più tornata. Piano piano intanto si scopre che Costantino era un ribelle, nemico delle istituzioni imperiali e principesche, desideroso del ritorno degli albanesi al primato della legge interiore, del rispetto reciproco e della parola data, la besa, più forte della semplice coscienza, della dimensione spirituale o religiosa. “Si trattava di un sistema in cui non ci sarebbe più stato bisogno di leggi scritte, di tribunali, di polizia. Naturalmente neppure quell’ordine sarebbe stato esente da drammi, delitti, violenze, ma l’uomo stesso sarebbe stato giudice e giudicato”. L’appello alla besa è un richiamo alla trasparenza dei sentimenti, a una legge interiore priva di rimorsi, segnata magari da durezze, anche “tetre e tragiche”, ma condivise e note a tutti. Tutte queste idee portano Stres a maturare riflessioni ben precise, che si porta nel cuore e nella mente quando, tra “brividi, mormori e spavento” del pubblico sale le scale della grande arena pubblica allestita per la sua relazione. Il capitano prima si attiene alla versione ufficiale, poi, stupendo prelati e dignitari, spiega che il reo confesso in realtà non ha mai conosciuto Doruntina, come ha confessato sotto tortura, non conoscendone neppure i lineamenti fisici, se non per sentito dire. Nella sua relazione il capitano prende a sottolineare che nere nubi avvolgono il futuro, attriti tra imperi e tra religioni, complotti, sotterfugi, turbolente perfidie e “l’Albania si trova in mezzo a quest’oceano agitato da tempeste e marosi furenti”. I grandi drammi che sono di fronte all’Albania l’avrebbero obbligata ad ardue prove e a dure scelte. “Se il popolo albanese ha cominciato a elaborare nel più profondo di sé delle istituzioni tanto sublimi quanto la besa, la fedeltà alla parola data, ciò sta a indicare che l’Albania è sul punto di fare la sua scelta. È per portare questo messaggio all’Albania e al resto del mondo che Costantino è uscito dalla tomba.” Secondo il capitano Costantino quindi, nella sua dimensione onirico - mitica, ha riportato Doruntina a casa, come promesso alla madre, per mandare un messaggio a tutti gli albanesi. Ciò detto, si leva le insegne statuali che porta, consapevole del suo licenziamento e lascia, oltre alla tribuna del palco, il suo villaggio, da cui scompare per sempre, dopo aver suscitato negli astanti “un senso di rispetto misto a timore e terrore”. La novità che rompe la tradizione e irrompe nel presente chiude il romanzo, mentre una giovane sposa parte per una lontana destinazione e le persone che assistono si chiedono se davvero alle giovani spose piaccia “cavalcare di notte, abbracciate a un’ombra, nelle tenebre e nel nulla”.

Kadare in questo testo del 1979 si muove con ambiguità tra l’esaltazione dell’albanesità e della besa, come parte identitaria del popolo, al pari della lingua e della cultura, e la condanna della besa stessa come pratica tribale, in contrasto col socialismo. È quella quattrocentesca un’Albania stratta tra Oriente e Occidente, ortodossia e cattolicesimo, in cui la besa, in quel tempo di “spaventosi turbini”, inventa “nuovi mezzi di difesa”, creando istituzioni informali ma condivise e più stabili di quelle temporali, che sarebbero velocemente cambiate nel corso degli anni e dei secoli, “strutture eterne e universali, insite nell’uomo stesso, inviolabili e invisibili e perciò indistruttibili.” Leggi capaci di mettersi al riparo dal mondo e dai suoi cambiamenti, per permettere agli albanesi di non essere cancellati. In altri romanzi Kadare ricorderà come il potere ottomano tuttavia farà uso della besa per incrementare le rivalità, gli scontri e le violenze tra gli albanesi, alimentando una spirale dalle forti valenze distruttive e in qualche modo autodistruttive. Un sentimento contrastato quindi quello di Kadare per la besa, consapevolmente ambivalente.