“Il mostro” di Ismail Kadare

 

di

Davide Rossi

 

Gent Ruvina, protagonista del romanzo “Il mostro” è certamente Kadare stesso, visto che Ruvina, come lui, è tornato un giorno d’ottobre dall’Unione Sovietica, nazione in cui studiava, come tanti ragazzi albanesi, presenti a Mosca, a Leningrado e in tutte le altre università del campo socialista. Un rientro forzato, dovuto alla rottura definitiva e in quanto tale inaspettata tra comunisti albanesi e resto del mondo socialista, ad esclusione della Cina di Mao Ze Dong, che fino al 1978 sarà il solo alleato dell’Albania socialista. Ruvina, come gli altri rientrati, “dall’aria disinvolta e malinconica” fa “regolarmente strage di ragazze”, affascinate da questi giovani che hanno vissuto in grandi, storiche e antiche metropoli, tanto lontane dalla quotidianità albanese. Questi studenti si sentono superiori in ragione d’essere “studenti strappati a un’università straniera e gettati nell’ignoto”, sebbene così ignoto non fosse, trattandosi semplicemente dell’Albania socialista di sempre e vengono bollati dai loro coetanei rimasti in patria come “poveracci allo sbaraglio”. I rientrati tuttavia si compiacciano nell’autodefinirsi: “frammenti di una nuova generazione perduta e smarrita”.

Gent Ruvina si innamora di Lena, Elena, per altro vero nome della moglie di Kadare, nel romanzo promessa sposa di un funzionario museale. La convince a scappare insieme a lui, tirandosi dietro l’ira dei parenti del promesso sposo e di questi. Il romanzo così si dipana in una serie di parallelismi, tra Gent e Lena, le vicende omeriche dell’Iliade, lo scontro sovietico-albanese, rappresentato da un grosso furgone/cavallo di legno abitato da strani personaggi e posto alle porte di Tirana, diventata novella Troia assediata dai sovietici/greci. Uno scontro in cui i piccoli albanesi si sentono pronti a fronteggiare la grande potenza e forse, come tante altre volte nel corso della storia schipetara, ribaltando le più prevedibili conclusioni.

Kadare inizia a scrivere nel 1965 questo testo che nella prima parte, proprio per i parallelismi mitologico – politici, riserva pagine affascinanti, poi abbandona il romanzo e quando lo riprende, nel 1990, svanito il senso per il quale lo aveva cominciato, si perde in rivoli psicologici e relazionali che smarriscono totalmente la forza e l’efficacia delle pagine redatte un quarto di secolo prima. La seconda parte del libro, dedicata alla distruzione, per molti aspetti onirica, della città, risulta posticcia e senza spessore. Meritevole d’essere ricordato solo un richiamo ad Enea: uno dei fuggitivi infatti “porta in braccio il padre molto anziano”, così come il gioco dichiarato, tra penati e padri del socialismo: “alcuni stringono tra le mani delle statuine che sembrano tanto dei penati domestici quanto dei piccoli busti di Marx”.

La prima parte invece è vivace e interessante, incardinata tra richiami mitologici e quotidianità politica, giocata non già su un equivoco, ma su un cortocircuito, in cui il dentro e il fuori, chi è di dentro e chi è di fuori, chi è comunista e chi lo è di più, Mosca e Tirana, presente e passato, letteratura classica e nuova letteratura socialista, cozzano brutalmente, ma in un clima quasi sospeso, silenzioso, in cui le parole misurate, le frasi brevi, quasi spezzate, restituiscono l’incertezza del momento storico, ma anche il disperdersi nell’immaginario collettivo albanese di una netta distinzione tra campo imperialista e campo socialista. Palmiro Togliatti con molte ragioni fino all’ultimo aveva ammonito i sovietici a non rompere coi cinesi e con gli albanesi, ma senza essere ascoltato. Kadare da parte sua è consapevole di come i sovietici siano solo compagni con idee diverse e sente il peso dell’asprezza di uno scontro che a tratti e per certi aspetti è anche innaturale. Tutto questo, a un lettore attento, si manifesta chiaramente, dentro l’epicità degli albanesi/troiani contro i sovietici/ateniesi. La paura del cavallo di legno dei troiani è la paura della possibile aggressione per gli albanesi. La riflessione sul potere e la sua forma d’esplicitarsi attraversa potentemente il libro. Così come gli intrighi, i tradimenti, le violenze assumono quasi una dimensione ancestrale ed eterna, inscindibile dal potere e in qualche modo connaturata con l’espressione del potere stesso, a prescindere dall’ideologia. Un’idea questa poco marxista e certamente poco gradita nei palazzi del potere di qualsiasi epoca, certamente anche della Tirana della metà degli anni ’60. Il conflitto apertosi non implica solo un confronto tra l’Albania rigidamente marxista e gli ondeggiamenti politico-economici dello sconclusionato Crusciov, ma si sostanziano nella rottura ben più dolorosa, problematica e complessa dell’Albania con tutta il campo socialista ad esclusione dei cinesi. Un isolamento che pone anche enormi difficoltà economiche, tecniche e di rifornimenti alimentari, energetici e di materie prime di cui l’Albania dispone in minima parte. Ovviamente all’interno dell’Albania e del partito vi è chi probabilmente auspica una ricucitura dei rapporti sovietico-albanesi, una sensibilità che certamente divide chi è sempre stato in patria, senza mai uscirne, da chi, per ragioni politiche, economiche o di studio è stato anche fuori. L’autocarro/cavallo di legno e soprattutto i suoi abitanti diventano così anche la proiezione - più immaginifica che reale - degli schipetari filosovietici, assurti a nemici interni. I fatti storici dimostreranno che in realtà nel partito non esisterà realmente un gruppo filosovietico, ma al massimo una parte del partito che constata con disincantato rammarico soprattutto gli effetti della rottura. Il gioco di somiglianze tra albanesi e troiani è accresciuto dal fatto che Ilio e Troia, i nomi della città antica hanno assonanze con il popolo illirico e la parola albanese “troja”, ovvero “terra lontana”, in più i troiani erano detti dardani, come una popolazione balcanica a cui in parte, come agli illiri, si richiamano gli schipetari per le loro origini.

La presenza fisica del furgone/cavallo di legno rimanda a quello mitologico, su cui tuttavia Gent Ruvina solleva dubbi, consapevole della concretezza/astrattezza fisica dell’oggetto, che potrebbe rimandare a una dimensione meramente simbolica. Un cavallo disegnato su una porta segreta della città da cui gli ateniesi sono entrati, un cavallo dipinto sulle uniformi degli assalitori, la preponderanza di un assalto di cavalleria, determinante per la caduta della città, il fatto che il monte Hippios sia stato il luogo in cui i greci si sono nascosti dopo aver dato fuoco al loro accampamento, o ancora, il cavallo di legno c’era, ma non conteneva Ulisse e i combattenti, aveva solo un significato apotropaico, assurto a simbolo dell’impresa dopo la vittoria, un mito che gli ateniesi non smentiranno mai, al fine di alimentare l’idea di una loro indubbia e vincente scaltrezza. Oppure tutta la storia del cavallo di legno non ha alcun fondamento storico, ma cela la strategia di gallerie sotterranee, una tattica d’assalto che i greci non intendono svelare e per questo la celano dietro il mito del cavallo di legno, o altrimenti la storia potrebbe essere quella di una delegazione che, senza cavallo di legno, guidata da Ulisse, entra a Troia e propone una pace menzognera che porta ad aprire le porte della città, spalancandole ai suoi distruttori. Ruvina si convince che “astuzie, crudeltà, crimini, massacri” sono per gli ateniesi divulgabili, ma non il “grande stratagemma della pace menzognera”, da qui l’invenzione del cavallo di legno, che così “è esistito, senza esistere”. Quindi, per occultare “la perfida violazione di un trattato di pace appena concluso che sarebbe stata giudicata dal mondo intero una vergogna e un disonore per la Grecia”, col rischio per gli achei di perdere credibilità di fronte a tutto il mondo antico, in cui si reputava esempio universale di rispetto del diritto, agisce per evitare la conoscenza di “un gesto che avrebbe rovinato la loro reputazione”, inventando lo stratagemma del cavallo.

La confusione tra cavallo mitologico e furgone/cavallo di legno, procede in una voluta sovrapposizione: “all’università si parla apertamente dello scisma nel campo socialista … se i troiani non avessero fatto entrare il cavallo … tremila anni di rimpianti per Troia … il cavallo è legato alla città da troppo tempo … eppure sarà la città a rovesciarlo … temo vi si nascondano degli agenti della sovversione … là dentro è nascosta tutta la vecchiaia del mondo”, con in questo caso un evidente riferimento al mondo sovietico, a cui si contrappone la giovane repubblica socialista albanese. Il furgone/cavallo di legno, metafora dello stato sovietico diventa così “parte integrante dell’orizzonte” e “oppressore delle anime” degli albanesi, secondo una vivace definizione di Kadare che tuttavia lui stesso stempera quando uno dei protagonisti del libro afferma: “la vita al di fuori del campo socialista è per me inconcepibile”. Il cavallo diventa così qualcosa che “non è uscito da nessun mito, da nessun abisso dei tempi”, perché “è stato generato dalla nostra epoca, solo la forma è stata presa da qualche lontano passato”. Il cavallo insomma pervade le coscienze, grazie al suo essere “percettibile e impercettibile”, ovvero reale/irreale e in quanto tale universale, “un congegno ancorato nella mitologia e con la testa proiettata verso i tempi moderni. Una macchina per seminare il terrore, in grado di adattarsi a ogni epoca per sfruttare le angosce delle generazioni successive.

Tutto questo mentre “con l’arrivo del freddo e delle piogge d’autunno, i rapporti tra i paesi del campo socialista si raffreddano giorno dopo giorno e, anche se la radio e la stampa non ne parlano, la cosa è oramai nota a tutti”. I notiziari infatti parlano “del ricatto imposto da uno stato a un altro, di proteste, di minacce aperte o velate dichiarazioni di guerra, per non parlare dei conflitti già in corso”, ma “ancora niente sullo scisma nel campo socialista. Eppure passando da una notizia all’altra, si percepisce una specie di irrigidimento. Era proprio così, con il passaparola, che all’epoca si era diffusa la notizia dei contrasti tra Achei e Troiani. Poi, sulla scia di quelle voci, il ritorno degli studenti troiani andati a perfezionarsi nelle università greche. La partenza da Troia degli esperti greci, forse venuti a insegnare ai Troiani l’uso del fuoco greco. Le ultime dichiarazioni delle due parti, estremamente dure, prima del richiamo dei rispettivi ambasciatori.” Con tutta evidenza i greci sono i sovietici e i troiani gli schipetari e i fatti più del Novecento che dell’antichità. Nei contrasti tra achei e troiani Kadare parla di “concessioni di crediti a lungo termine per la costruzione di un tempio a Zeus”, ovvero le centrali elettriche costruite con la collaborazione dei fondi e dei tecnici sovietici, e “una base navale comune”, ovvero la base militare di Sazan, l’isola in cui stazionavano i sottomarini sovietici. Vale la pena ricordare che sull’isola di Sazan la Repubblica Serenissima di Venezia si installa dal 1389 al 1815, poi si alternano mezzo secolo ciascuno britannici e greci, infine questi consegnano l’isola agli schipetari nel 1913, ma solo un anno dopo gli italiani la occupano per un trentennio, fino alla Liberazione dell’Albania. In cambio della cancellazione dei debiti di guerra contratti dal nuovo stato socialista con i sovietici, questi portano a Sazan e nella vicina base militare "Pascià Liman" di Valona i sottomarini dell’Armata Rossa. Nel maggio 1959, mentre Crusciov è in visita in Albania e tra l’altro va a Valona dichiarando, sempre con il suo inusitato sproposito e la solita leggerezza, che da lì controlla tutto il Mediterraneo, arriva a Tirana Peng Dehuai, ministro della difesa ed eroe della Lunga Marcia, comandante nella guerra contro i giapponesi, poi contro i nazionalisti e infine generale del contingente cinese schierato insieme all’esercito coreano in difesa dall’aggressione imperialista del 1950-1953. Peng Dehuai sarà ministro ancora per pochi mesi, verrà infatti sostituito da Mao con Lin Piao dopo la conferenza di Lushan, nella quale Peng critica aspramente i disastri del “Grande balzo in avanti”, sostenuto nella critica dal grandissimo primo ministro Liu Shaoqi, il quale finirà ugualmente emarginato con la Rivoluzione Culturale, di cui Kadare sarà ironico osservatore nei viaggi di amicizia tra le due Unioni degli scrittori. La drammatica rottura sovietico-albanese, con l’uscita de facto dell’Albania dal Patto di Varsavia, seppur ratificata solo nel 1968 quando Enver Hoxha si scaglierà contro i carri armati sovietici a Praga e manderà una lettera ufficiale di fuoriuscita da Patto, è raccontata ne “L’inverno della grande solitudine” di Kadare e alcune pagine riguardano proprio la vicenda di Sazan. Gli albanesi devono infatti schierarsi militarmente nella stretta lingua di mare per convincere i sovietici a lasciare l’isola e la base di Valona. Nel 1979 i soldati dell’isola verranno coinvolti nelle riprese del film di grande successo “Ballë për ballë”, ovvero “Faccia a faccia” di Kujtim Cashku e Piro Milkani, le cui emozionanti immagini conclusive, con i sommergibili schieptari che escono vittoriosi dalle acque sventolando la bandiera della marina militare albanese, compaiono anche nel capolavoro assoluto della cinematografia schipetara “Ne cdo stine”, ovvero “In ogni stagione”, strepitosa storia d’amore diretta da Viktor Gjika.

Nel gioco tra passato e presente anche l’oracolo di Delfi viene rivisto in senso moderno, diventando il telefono rosso che ai tempi della Guerra Fredda collegava Mosca a Washington: “in mancanza di mezzi di informazione, delle conferenze stampa e delle dichiarazioni ufficiali tipiche della nostra epoca, era stata messa in piedi questa agenzia internazionale, che sotto certi aspetti svolgeva lo stesso ruolo dell’odierno telefono rosso.” Un telefono che mai squillerà per la rottura sovietico-albanese. Calerà soltanto il gelo e una certa ostilità verbale, tanto che tra “le ciminiere delle fabbriche che sputano fumo senza sosta” prenderà a soffiare un vento che “inciampando nel vuoto oscuro, geme come una belva in trappola”.