Svelando i pregiudizi contro il velo

di

Dilettta Vignati

 

Il velo hijab, nonostante non sia stato imposto come dovere fondamentale dal Corano – che invita le donne soltanto a coprire le parti del corpo più intime, senza specificare quali esse siano, è oggi considerato simbolo dell’Islam in Occidente e in Oriente e oggetto di costante dibattito.

Renata Pepicelli ripropone l’accezione originaria del termine: il velo come tenda, cortina che da una parte nasconde e protegge mentre, allo stesso tempo, rivela. Questa separazione tra fuori/dentro, aperto/chiuso, pubblico/privato riflette le relazioni di potere tra i generi nelle società islamiche: le donne infatti si coprono all’aperto, nello spazio pubblico, mentre si scoprono nel privato, nello spazio domestico riservato alle donne, alla famiglia e a quegli uomini coi quali non è possibile contrarre matrimonio.

Ed è proprio in questa accezione che si cela la riproposizione di una mentalità e di un tipo di orgazìnizzazione politica e sociale che limita di fatto le libertà delle donne, permettendo loro di rivelarsi, anche metaforicamente, soltanto in ambiti privati.

Il velo, inoltre, in Occidente allude anche a un confine nel senso più letterale del termine, poiché segno di un’irriducibile alterità nella quale le donne islamiche vengono immediatamente etichettate, in quanto simbolo identitario di appartenenza culturale, politica, etnica e religiosa. Questo diventa particolarmente importante nell’Europa degli ultimi decenni, dove il flusso migratorio crea inedite opportunità di contatti, ma anche di contrasti, tra le diverse culture.

In un Occidente sempre più secolarizzato, dove la parità tra i sessi è un obiettivo già in buona parte raggiunto e la cui necessità non è più possibile mettere in discussione, l’immagine della donna velata rappresenta l’emblema della sottomissione e dell’oppressione femminile, oltre che di una cultura islamica arretrata, oscurantista e misogina, che resisterebbe per sua natura all’integrazione.

La prospettiva degli studi femministi e postcoloniali, che l’autrice sceglie consapevolmente di adottare in questo libro, restituisce invece una capacità di azione consapevole a tutte le donne coinvolte nella questione del velo (che scelgano di indossarlo o meno), pur se inscritte in una complessa rete di rapporti di potere. Talvolta Pepicelli sembra perfino indulgere a un eccessivo ottimismo riguardo la reale possibilità delle donne di scegliere per sé, sottovalutando il peso di condizionamenti famigliari, sociali e politici che possono giungere fino alla violenza fisica o psicologica.

Seguendo la lezione di femministe postcoloniali come Gayatri C. Spivak e Chandra T. Mohanty, Meyda Yeğenoğlu, Emma Tarlo, Joan W. Scott, Leila Ahmed, l’autrice esplora dunque le motivazioni in base alle quali sempre più donne oggi, in ogni parte del mondo, scelgono di velarsi.

Grazie a una prospettiva storica e sociologica che parte dall’avvento dell’Islam per arrivare fino ai giorni nostri, il volume ricostruisce infatti la complessità e la pluralità dei diversi significati attribuiti dalle donne a un pezzo di stoffa che suscita dibattiti infuocati sia nei paesi a maggioranza musulmana che nel resto del mondo.

Pepicelli attraversa alcune tappe di particolare rilevanza nel percorso di reciproca conoscenza tra Occidente e Oriente, a partire dall’immaginario esotico dei colonizzatori (viaggiatori, soldati, diplomatici e artisti che in alcuni casi non sono mai stati in Oriente) che, attraverso le loro fantasie di conquista e sottomissione, contribuiscono ad affermare l’idea della presunta superiorità dell’Occidente, contrapposta alla barbarie dell’Oriente. Se la questione del velo assume un ruolo centrale nel discorso coloniale ― per i francesi, strappare il velo alla donna algerina significa conquistare l’Algeria stessa ― non stupisce che il velo si trasformi poi in un potente emblema della resistenza anticoloniale, finendo però per imprigionare le donne nell’immaginario della Rivoluzione.

In aperta contrapposizione con le rappresentazioni orientalistiche, Pepicelli ricostruisce invece la realtà storica del Novecento come «il secolo dello svelamento»: almeno fino agli anni settanta del secolo scorso, infatti, le donne in paesi musulmani come Turchia, Iran, Egitto e Tunisia decidono di abbandonare il velo e affermano la propria presenza nello spazio pubblico, contribuendo attivamente alle profonde trasformazioni politiche e sociali in atto nei loro paesi. Una decisa inversione di tendenza si rileva a partire dagli anni settanta del Novecento, quando si assiste a un inaspettato ritorno del velo, senza tuttavia venire meno al contributo decisivo delle donne alle trasformazioni politiche e sociali.

Da questo percorso emerge come anche il dibattito femminista sui «veli postcoloniali», che caratterizzano le metropoli europee contemporanee in seguito alle migrazioni, si sia concentrato finora sulla necessità di scegliere tra due posizioni estremamente polarizzate e apparentemente inconciliabili: essere favorevoli o contrarie al velo. Si pensi ad esempio al caso francese della legge che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, che ha spaccato in due il movimento femminista francese, finendo per limitare l’accesso delle ragazze velate all’istruzione pubblica. Oppure al dibattito scatenatosi in Italia dopo i femminicidi di Hina Saleem e Sanaa Dafani, uccise dai padri a causa delle pressioni sociali esercitate da familiari e membri delle rispettive comunità di origine, che consideravano i loro comportamenti «troppo occidentali». In entrambi i casi, le scelte e i desideri delle giovani donne coinvolte non sono stati presi in considerazione nel dibattito pubblico e le loro voci sono rimaste inascoltate, anche da una certa parte del movimento femminista. In particolare, a proposito dell’affaire du voile in Francia, Pepicelli sostiene che le donne che indossavano il velo «sono state necessariamente ritenute vittime più o meno consapevoli di una cultura patriarcale»: i sostenitori della legge contro il velo hanno voluto difendere il principio della laicità dello stato in contrapposizione a ogni forma di comunitarismo; i suoi oppositori si sono concentrati sul carattere discriminatorio e razzista del divieto; ma in ogni caso, la voce delle dirette interessate (le donne che lo indossano) è rimasta in secondo piano e la loro autonomia di scelta non è stata riconosciuta.

Grazie a interviste, documenti e testimonianze dirette, oltre che facendo riferimento a una ricca ed esaustiva bibliografia, questo libro contribuisce dunque attivamente a decostruire i pregiudizi, le inesattezze e le imprecisioni spesso diffusi nei media e nel dibattito politico: ad esempio, offrendo informazioni dettagliate sulla terminologia corretta per definire le varie tipologie di velo; oppure, ridimensionando i dati relativi al numero di persone che indossano il velo integrale nelle metropoli dell’Occidente; documentando anche l’emergere del fenomeno della moda islamica, nei suoi nessi con le trasformazioni dei canoni estetici e con il mercato globale della moda; fino ad analizzare le opere di Princess Hijab, che trasformano il velo in uno strumento di provocazione artistica e politica.

Pepicelli pone con forza anche il tema del tempo, ovvero, se nel mondo islamico l’universo maschile cerca contenere le donne nello spazio, domestico e del velo, nel mondo occidentale si cerca di contenerle nel tempo, ovvero obbligandole al perseguimento di una infinita e al contempo impossibile giovinezza, propagandata da tutti i messi di comunicazione.

A partire da questa contrapposizione, come è possibile pensare di costruire un progetto politico femminista che unisca donne così diverse tra loro in nome di un obiettivo comune? È forse questo l’interrogativo che rimane ancora aperto dopo aver letto il libro di Renata Pepicelli, che di certo non offre risposte certe. Non perché sul velo non si possa esprimere un giudizio o prendere una posizione ― specie da una prospettiva femminista e laica, che vede in ogni religione uno strumento di controllo sui corpi delle donne ― ma semplicemente perché, prima di farlo, è necessario conoscere le ragioni di chi lo indossa, siano esse scelte liberamente e consapevolmente o meno.

 

Renata Pepicelli, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica, edito da Carocci editore (Quality Paperbacks), Roma, 2012, pp. 159, euro 14.