Nel deserto della Giordania sboccia il fiore dell’emancipazione femminile


di

Pierluigi Colombini

 

Siamo al numero 301 di una lunga strada a sei corsie, una di quelle strade noiosamente dritte, incorniciate tra un alternarsi di ipermercati, catene di ristoranti e palazzi di vetro. Una di quelle strade che dalla periferia di Amman conducono al suo cuore di edifici biancastri incastonati tra le sette colline, regine incontrastate della città, silenziose custodi di resti romani, ormai ostaggi impotenti di un passato lontano, circondati da minareti, traffico e il mercanteggiante chiasso del Medio Oriente.

Appena arrivati pensiamo ad un errore, a quell’indirizzo corrisponde un negozio di vernici. Entriamo a chiedere di Lina, il commesso filippino capisce subito e ci fa cenno di seguirlo in ascensore, quarto piano e appena arrivati ci troviamo davanti un’anonima porta bianca tappezzata di fogli come fosse una bacheca; uno di questi suona minaccioso: “Per tutti gli uomini: se volete diventare sacchi da box siete i benvenuti”. Questa volta non ci sbagliamo, siamo nel posto giusto... anonimo ma giusto.

Anonimo come da queste parti è il tema dell’emancipazione femminile, come quello sulla violenza di genere; anonima e silenziosa è anche la lotta, fisica e sociale, che viene costantemente combattuta oltre quella porta bianca da Lina Khalifeh e dalle sue allieve, tutte donne, anzi, solo donne!

“She Fighter”, questo il nome della palestra che ormai può dirsi un fenomeno, un simbolo che rappresenta per tante donne da queste parti, ma anche altrove, un punto di riferimento per uscire timidamente dai meandri della sottomissione e del maltrattamento.

Suoniamo il campanello e veniamo accolti da due gentilissime ragazze, ma c’è da attendere: Lina purtroppo è fuori città, inoltre ci sono loro, le ragazze, che mentre si allenano non indossano l’hijab.

“L’hijab? Ma non sono emancipate?” Potrebbe chiedersi un mediocre osservatore occidentale, incapace di immaginare un mondo oltre il proprio dove la scelta di coprirsi il capo sia libera e personale. Eppure è proprio ed anche da queste scelte che passa l’emancipazione.

Aspettiamo ancora, ma purtroppo Lina ha avuto un contrattempo e non tornerà ad Amman. Così veniamo accolti da Dania Nattsheh, una giovane istruttrice che ci mostra la sala degli allenamenti, un ambiente piccolo con delle ampie vetrate sulla strada, ma denso di personalità e carico di significati. Sulle pareti il rosa domina indiscusso, a fargli contrasto solo delle scritte motivazionali e sfrontate, disegni di lottatrici donano movimento anche quando tutto è fermo.  L’unica presenza maschile (non a caso) è un uomo muscoloso, calvo, severo e dallo sguardo minaccioso, ma è soltanto il manichino da box che le ragazze hanno soprannominato “Rbi’a” che in arabo vuol dire “primavera”. “L’abbiamo soprannominato così perché tutte le principianti iniziano con lui” ci spiega sorridendo Dania. Lei ha iniziato alcuni anni fa. “Volevo solo vincere la timidezza, ma alcune di noi vengono per motivi più seri, soprattutto violenza domestica” continua a spiegarci “I primi risultati si vedono in fretta, le donne escono subito dall’insicurezza, cominciano a crederci, capiscono il loro valore e infine diventano sicure di sé e abili lottatrici”.

È proprio per un caso di violenza domestica a danno di una amica che Lina decise di fondare questa scuola. “Il padre e il fratello la picchiavano, gli requisivano i soldi che guadagnava al lavoro”. Così all’ennesima vista di quel viso tumefatto prese la decisione: avrebbe aperto una scuola per insegnare alle sole donne l’autodifesa, ma cosa più importante, la fiducia in se stesse e la consapevolezza di non essere da meno.

Dopo aver iniziato ad allenare nel seminterrato della casa dei genitori, nel 2012, tra la sfiducia di tutti aprì la prima palestra ad Amman, la sua città. Da allora è stato tutto un crescere che ha portato le scuole “She Fighter” in tutto il mondo, dall’Olanda, al Brasile, dalle Mauritius, alla Corea del Sud.

Con oltre quindicimila allieve e decine di insegnanti il progetto ha ricevuto l’attenzione dell’ONU e dopo numerosi riconoscimenti internazionali. Una storia controcorrente quella di Lina, che da bambina venne portata dai genitori nella scuola di taekwondo di un parente per tenere a bada la sua iperattività e che dopo aver canalizzato la rabbia in un progetto, ad oggi ancora l’unico in tutto il Medio Oriente, si è fatta imprenditrice di successo e simbolo di rivalsa per tante donne in tutto il mondo.