CPIA, scuola per la libertà

di

Matteo Zaghini

 

In piscina si nuota, al cinema si guardano i film, al ristorante si mangia... E a scuola cosa si fa?

Improvvisamente questa domanda esigeva sempre più spazio tra i miei pensieri. Ed era il giorno della mia presa di servizio al CPIA 5 di Milano. Il mio primo giorno di scuola. E dire che ne avevo avuto di tempo per rifletterci, potrei dire anzi che avevo avuto tutti gli anni della mia adultità per tentare di dare delle risposte al significato dell'educazione scolastica. Ma solo ora, a un passo dalla classe, acquistava un'urgenza così nuova per me.

Dopo cinque anni di Università e uno di TFA (Tirocinio formativo attivo) riuscivo finalmente a entrare in uno spazio che ormai consideravo chimerico, - talvolta proprio irraggiungibile, grazie all'imprevedibile legislazione italiana – e nel quale avrei potuto mettere a disposizione degli altri tanti anni di studio, letture, viaggi, esperienze ed emozioni. Un luogo mitico perché avverso agli attributi tipici della contemporaneità, una roccaforte dello scambio in cui questa parola non fa rima con commercio o con compravendita ma con dialogo, ascolto, comprensione e condivisione.

Certo avevo già fatto delle esperienze in classe come tirocinante, svolto alcune ore di lezione e imparato a conoscere alcuni lati “aziendali” della scuola, ma questa volta mi trovavo a indossare per davvero i panni del professore, cioè del Profèssus, di colui che dichiara pubblicamente davanti a una platea, a una classe, a dei ragazzi, a delle persone.

Al CPIA 5 di Milano avevo già svolto parte del mio tirocinio l'anno precedente perché attirato dalla specificità di questo istituto, quella cioè di essere una scuola per adulti, dove per “adulto” non si intende solamente colui che comunemente identifichiamo “cresciuto negli anni e nella persona” ma anche e soprattutto ragazzi che per ragioni diverse, superato il sedicesimo anno d'età, devono ancora frequentare la scuola secondaria di primo grado. Inoltre, considerata l'utenza per la stragrande maggioranza straniera, questa scuola offre corsi per l'alfabetizzazione funzionale e per il rilascio del certificato di italiano L2, attestato fondamentale per chiunque giunga nel nostro paese e voglia cominciare una carriera lavorativa.

Stando agli standard dipinti dalla normativa nazionale si potrebbe definire una scuola che riunisce i soggetti B.E.S., cioè con “bisogni educativi speciali”; ma mentre in una scuola “normale” questa sigla identifica la minoranza di alunni all'interno della classe bisognosi di maggior riguardo perché DSA o caratterizzati da svantaggio sociale, culturale o linguistico, al CPIA 5 il rapporto è esattamente invertito, e quasi tutti i ragazzi sono portatori di uno svantaggio che molto spesso è figlio di una società tragicamente discriminatoria e di politiche neoliberiste colpevolmente invischiate nello sfruttamento dei popoli del mondo.

Quando sono entrato in classe ho incontrato lo sguardo di ragazzi e ragazze provenienti dall'Egitto, dal Marocco, dal Senegal, dal Mali, dal Gambia, dalla Palestina, dall'Afghanistan, dalla Cina, dal Bangladesh, dalle Filippine, dalla Repubblica Dominicana, dall'Ecuador, dal Perù, dall'Albania, dal Kosovo, dall'Ucraina e dalla Romania; ma anche qualche ragazzo italiano “problematico” che la scuola normale ha deciso di dirottare qui.

Il mondo intero in un'aula, con tutti i suoi interrogativi, i suoi livori, i suoi entusiasmi e le sue motivazioni.

In che modo riuscire a fare stare insieme ragazzi già scolarizzati a ragazzi che mettono piede per la prima volta in un'aula scolastica? E ancora, come riuscire a far convivere e dialogare nel modo migliore possibile culture e linguaggi così diversi? Mi sono reso subito conto che il mio compito principale, da professore di lettere, era quello di trovare un registro che fosse comprensibile a tutti, che non annoiasse gli italofoni e che non fosse incomprensibile per i ragazzi arrivati da poco in Italia. Accantonare quindi per un po' l'idea di un programma e ascoltare i bisogni degli alunni, le loro esigenze, la loro idea di scuola e soprattutto riuscire a dare un senso al tempo passato insieme. Le prime lezioni le passiamo a chiederci «cosa si fa a scuola?» e sono fondamentali per capire quali regole darci nel tempo che passeremo insieme, perché ci accorgiamo subito che questo tempo può conquistare senso solo se condiviso e rispettato da tutti attraverso l'ascolto. Da qui l'importanza di un codice comune, non imposto, che parta dagli aspetti più banali: bussare prima di entrare in classe, arrivare puntuali, non usare il cellulare, non parlare mentre qualcun altro lo sta facendo etc.

I primi mesi li passiamo a ripeterci per molte volte le stesse cose, a interrogarci sul significato di queste regole, sul significato che hanno la libertà e l'intelligenza sociale; confrontiamo i nostri diversi modi di stare insieme, provenienti da culture così diverse, e non abbiamo paura di relazionarci finanche con lo scontro, perché il patto che è alla base del nostro rapporto è il rispetto e la fiducia, conditio sine qua non per discutere, ma sempre col sorriso.

I ragazzi capiscono che queste regole sono mattoni che ci permettono di costruire i muri del nostro spazio d'ascolto, uno spazio dentro al quale il mondo esterno con i suoi brusii deve entrare il meno possibile per non disturbare l'ora di lezione. Capiscono che stiamo componendo un “noi” che non è calato dall'alto e che non è impositivo, ma che per questo richiede ancora più fatica e consapevolezza. Capiscono che quando non bussano alla porta non stanno facendo un torto al professore, ma stanno violando uno spazio che appartiene anche a loro; capiscono che il cellulare non aiuta l'ascolto, ma che anzi lo ostacola, lo rallenta e a volte lo offende; capiscono che chiacchierare mentre qualcun altro sta parlando non è un atteggiamento inclusivo ma esclusivo. Tutte queste cose i ragazzi le capiscono... le capiscono e decidono ogni giorno se rispettarle o no, se stare ai patti oppure infrangere il contratto invisibile che ci consente di essere comunità.

Sarebbe disonesto non ammettere che alcuni giorni il senso di fallimento è pervasivo e che tutto il lavoro fatto sembra andare in fumo o non essere servito a niente; basta la frase di un ragazzo ancora semi addormentato per fare cascare a pezzi il tuo castello di professore perfetto insieme ai discorsi fatti e al rispetto che credevi conquistato una volta per sempre e alla partecipazione che davi ormai per assodata... e invece, come in una lenta epifania, piano piano, ti accorgi che ogni giorno – donchisciottescamente - devi cadere da cavallo e risalirci sopra, cadere e risalire... e questo fa proprio parte del dialogo educativo, come segno di fede nei ragazzi e nel tuo mestiere.

Le lezioni sono occasioni per aprire nuovi mondi, per scalfire vecchie credenze, per abituarci alla problematizzazione e per sgretolare le certezze, che cerchiamo di lasciare agli altri. Parliamo così, tra un pronome e un passato remoto, di argomenti vivi, che riguardano le nostre vite, come per esempio dei diritti civili, della condizione femminile, della discriminazione, dell'origine dei conflitti e della non-violenza, senza mai arrivare a un “giusto o sbagliato”, compito che non credo spetti a un professore individuare.

Un punto su cui torno più volte lungo il corso dell'anno con questi ragazzi è il concetto di schiavitù, perché nelle lunghe discussioni che intavoliamo sulle loro ambizioni per il futuro emerge come i loro desideri coincidano con quelli di coloro che offrono lavoro a basso costo e bassa remunerazione e non qualificato. Una volta finita la scuola tutti vogliono fare i camerieri, gli aiuti cuoco, i giardinieri, la sicurezza nei negozi, le badanti o le baby-sitter; insomma, mano d'opera a basso costo. Niente di male in questi lavori, ben inteso. Ma la questione è quanto questi mestieri raffigurino veramente una possibilità di realizzazione per loro o quanto piuttosto non siano l'unica scelta che hanno per sopravvivere in questa città/società/mondo.

Molti dei miei ragazzi, soprattutto coloro che frequentano i corsi serali, spesso non vengono a scuola perché costretti a lavorare oltre il loro orario, oppure perché gli educatori delle comunità che li ospitano dicono loro che la priorità assoluta deve averla il lavoro, consentendo loro il rinnovo dei documenti. Si insinua così nei ragazzi l'idea (purtroppo vera) che l'unico modo per rimanere in questo paese sia il lavoro, qualunque esso sia, e così finiscono per lasciare la scuola appena trovano un'occupazione o una volta raggiunto il diploma di terza media.

Il mio compito - il compito della scuola - è far capire loro che nessuno regalerà loro la possibilità di immaginarsi un futuro diverso da quello prospettato per loro da questa società e che se non studieranno, se non faranno esercizio di cultura, verranno assimilati a questo sistema economico con l'illusione di essere uomini liberi.

Così, l'augurio che faccio loro e l'esercizio che dico loro di praticare costantemente, è quello di tenere viva la dimensione del sogno e la volontà e la determinazione per realizzarlo, di continuare a immaginare un futuro che tenga l'orizzonte aperto e che non li lasci schiacciare dal peso dell'ingiustizia sociale.

Finalmente ho una risposta alla domanda iniziale, e mi dico che a scuola si offrono agli studenti quegli strumenti culturali e relazionali che ne fanno degli uomini liberi.