Al CPIA tra i cittadini di domani

di

Antonello Soscia

 

A distanza di qualche settimana dalla chiusura dell’anno scolastico, trascorso un fisiologico periodo di riflessione, metabolizzazione e interiorizzazione, è giunto il momento di dipanare un sintetico bilancio sull’esperienza lavorativa al CPIA 5 di Milano, un’avventura tanto breve dal punto di vista temporale (appena cinque mesi e mezzo) quanto profonda, indelebile, piena di significati dal punto di vista sia professionale che umano.

Tutto ha avuto inizio con l’inaspettata convocazione ricevuta intorno alla metà di gennaio. Ero rimasto senza contratto poco prima di Natale e avevo da pochissimi giorni iniziato a lavorare come insegnante di sostegno in una scuola media ordinaria.

Confesso che allora non avevo alcuna idea di cosa fosse un CPIA; certo, conoscevo vagamente la realtà delle scuole serali , ma quella sigla era a me totalmente ignota. Nella mia testa prefiguravo qualche strano mostro ibrido, uno scenario post-apocalittico da grottesco istituto pseudo-paritario così come purtroppo se ne vedono al giorno d’oggi.

L’unico fatto inoppugnabile era che il mio contratto di allora sarebbe terminato il 29 febbraio senza possibilità di rinnovo mentre la nuova offerta mi avrebbe permesso di lavorare fino alla fine dell’anno. Così, con molta curiosità ma non pochi dubbi, accettai l’offerta.

Ci è voluto davvero poco affinché le forti titubanze che inizialmente mi accompagnavano svanissero, sublimandosi e trasformandosi in sensazioni diametralmente opposte.

Sarà stato per la posizione della sede centrale in via Pontano, situata proprio tra via Padova e viale Monza, nell’epicentro della multiculturalità milanese, dove la koiné etnica e antropologica di questa meravigliosa città è percepibile anche a livello prettamente visivo e spaziale.

Sarà stato per l’atmosfera da ‘bronx’ che si respira percorrendo a piedi il passaggio dalla fermata della metro Rovereto alla scuola, caratterizzato da strettoie, murales colorati, costruzioni abbandonate, abitazioni popolari e situazioni di frontiera. Sarà stato per l’affabilità e la sorprendente giovialità del dirigente scolastico e del collaboratore vicario, per me così sbalorditiva abituato com’ ero al clima molto più bacchettone e ingessato delle scuole ordinarie. Sarà stata forse la foto degli oriundi Ghiggia e Schiaffino con la maglia della Nazionale italiana che campeggiava in vice-presidenza, affiancata da molte altre immagini che richiamavano progresso, libertà, uguaglianza, fratellanza e giustizia sociale.

Tutto ciò che posso dire è che in meno di mezz’ora capii che quello era esattamente il perfetto prototipo di scuola in cui avrei desiderato lavorare.

I profondi mutamenti sociali che hanno investito l’Europa e l’Italia nell’ultimo ventennio si sono riverberati anche nel mondo dell’educazione per gli adulti: se negli scorsi decenni essa era appannaggio prevalentemente di donne e uomini italiani cui era stata negata l’opportunità di accedere all’istruzione media-superiore poiché erano stati costretti a lavorare in tenera età per sostenere economicamente le proprie famiglie, oggi la situazione è mutata.

 Pur non trascurando le casistiche descritte poc’anzi tutt’ora presenti in forma minoritaria (cui si sommano numerosi casi di studenti spesso incompresi e respinti dalle scuole diurne ordinarie), l’utenza del CPIA è oggi composta prevalentemente da studenti stranieri che hanno intrapreso con incredibile coraggio lunghi e pericolosi viaggi nella disperata ricerca di una vita migliore, tra prove indicibili, famiglie spezzate, lutti, digiuni prolungati e reiterati, violenze di ogni sorta, privazioni e sofferenze strazianti sia fisiche che emotive, vivendo storie il cui solo ascolto fa venire la pelle d’oca.

Lavorare quotidianamente con queste donne e questi uomini di ogni età e di ogni provenienza geografica (Africa araba, Africa nera, Medio Oriente, Balcani, America Latina, sub-continente indiano, sud-est asiatico ed estremo Oriente) è stata un’opportunità di crescita personale difficilmente descrivibile attraverso le parole.

È stato come essere improvvisamente catapultati nell’epicentro delle grandi questioni che infiammano il dibattito pubblico italiano e mondiale, nell’occhio del ciclone delle fondamentali problematiche politiche e umanitarie a livello sia locale che planetario.

Ho avuto l’irripetibile opportunità di toccare con mano e sperimentare empiricamente il reale significato di quelli che per me erano soltanto concetti astratti, racconti da mera inchiesta giornalistica; è stato possibile relazionarsi in prima persona con le grandi masse di diseredati creati dalle guerre, dalle terribili contraddizioni e dagli squilibri del mondo di ieri e di oggi.  Ho avuto la fortuna di confrontarmi con il nuovo proletariato urbano che vive ai margini delle nostre città, con la sua lingua e la sua cultura, il suo immaginario collettivo, i suoi aneliti, le sue aspirazioni, i suoi sogni.

Ho preso coscienza del fatto che le forze più giovani e dinamiche della società europea di domani parleranno arabo e professeranno l’Islam (con buona pace degli xenofobi e razzisti del vecchio continente) e nel CPIA è stato possibile – nel mio infinitamente piccolo - contribuire in maniera propositiva alla creazione di questo nuovo paradigma, al compimento pacifico di questo inevitabile (e sottolineo INEVITABILE) processo di trasformazione e cambiamento sociale.

Al CPIA è stato possibile soprattutto lavorare in un contesto scolastico assai diverso rispetto alla direzione che da molti anni sembra aver preso il sistema scolastico italiano impregnato di ideologia neo-liberista, sempre più orientato verso un iniquo modello aziendalistico e manageriale basato sulla selezione, sulla competizione, sul nozionismo sterile e sulle “competenze” che ormai sembrano aver scalzato la Conoscenza e la curiosità verso il sapere in sé.

In questi cinque mesi e mezzo ho riscoperto un modo di fare scuola posto quasi fuori dal tempo, fortemente ispirato nella pratica quotidiana dai valori professati da Don Lorenzo Milani. Un modello scolastico totalmente inclusivo, in cui lo studente è messo al centro del sistema educativo e in cui è ancora viva e riconosciuta la fondamentale funzione sociale propria dell’insegnante.

Il  mio principale compito all’interno delle classi attribuitemi è stato l’insegnamento della lingua italiana. Una grande responsabilità e un grandissimo onore per me, perché è proprio nell’imprescindibile conquista della parola che il parroco di Barbiana (nella lettera pubblicata dal Giornale del Mattino il 20 maggio del 1956) riconosce il principale mezzo di emancipazione individuale e collettivo di ciascuno, la strada maestra per il raggiungimento della dignità di essere umano.

Che le sue straordinarie parole possano sempre essere guida e ispirazione per chiunque abbia la strepitosa opportunità di lavorare nel campo dell’educazione, dell’istruzione e della formazione.

         “ […] Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano subito l’utilità pratica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L’uno se ne accorge nell’affrontare il libro del motore per la patente. L’altro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo s’è buttato sui romanzieri russi e li intende. Ognuno di loro se ne è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista a voce alte, pieni di boria. Delle loro parole afferra oggi il valore e ogni sfumatura. S’accorge solo ora che esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. I più arditi han provato anche a metter bocca. Cominciano a inchiodare il chiacchierone sulle parole che ha detto.

Parole come personaggi si chiama una tua rubrica [si rivolge al direttore del giornale, ndr]. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale. Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata.

Un’utopia? No. E te lo spiego con un esempio: un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato discute da pari a pari. Ma questo non perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio sulla parola.

Ebbene, a questa parità si può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua).

Questo non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che si vuol dire uomo.”