Napoli 1799, Roma 1849, Unità d’Italia e malefatte dei Savoia

di

Davide Rossi

 

Tanti amici dell’Italia meridionale con molte e fondate ragioni contestano la storia della formazione dell’Italia unitaria per come io stesso l’ho studiata quattro volte tra le elementari e l’università. Questo non per negare l’esistenza dei patrioti che sognavano l’unità di coloro che parlavano la lingua di Dante, almeno nelle scuole ancorché poco frequentate, del popolo nelle Cinque Giornate milanesi, del punto più alto della partecipazione democratica, con significative venature giacobine, ovvero orientate all’uguaglianza, rappresentato dalla Repubblica Romana del 1849 di cui la Costituzione da loro redatta resta a imperituro manifesto, piuttosto per criticare, direi di più, smontare le falsificazioni imposte dai Savoia. La monarchia sabauda ha impoverito il Sud, imposto uno sfruttamento coloniale, aperto campi di concentramento, anche se allora ancora non si chiamavano così, ha espiantato le fabbriche e le ha ricostruite al Nord, tra Torino, Genova e Milano. I Savoia hanno distrutto la Marina borbonica e svuotato le casse della tesoreria di stato del Regno delle Due Sicilie. I veri responsabili della miseria che ha piagato il Sud sono stati i Savoia e il loro governi, da Cavour a tutti i seguenti. Tra l’altro, ricordiamolo bene, il vero motore dell’unità nazionale non è stato tutto quello che abbiamo letto in centinaia e centinaia di pagine, ma la decisione di inglesi e francesi di appoggiare i Savoia nella costruzione di un’Italia unita a patto che distruggessero la Marina militare e mercantile borbonica in modo da non avere un competitore nel Mediterraneo nel momento in cui aprivano con grande dispendio economico il canale di Suez. Tuttavia questo non deve trasformare il regno borbonico in una specie di paradiso, non lo era, anzi, se possiamo confermare, come attestano i documenti, che è stato in ogni caso peggio il periodo italiano rispetto a quello borbonico, non si possono dimenticare le miserabili condizioni di vita in tempo borbonico delle masse proletarie meridionali, dalla Sicilia alla Puglia: analfabetismo, fame, malattie, bestiale sfruttamento padronale nei campi e nelle fabbriche. Con tutta franchezza la bandiera borbonica non è un vessillo di cui essere orgogliosi. Al contrario non vedo alcuna attenzione per una delle più straordinarie esperienze politiche della storia meridionale, quella della Repubblica Napoletana, la sola, seppur durata esclusivamente i primi sei mesi del 1799, in cui le ragioni degli umili, dei diseredati, degli oppressi e degli sfruttati sono diventate la principale preoccupazione del governo. Per altro un governo capace di porre una donna, Eleonora Fonseca Pimentel, alla guida del giornale repubblicano “Il monitore napoletano”, la prima volta di una donna direttrice editoriale nella storia d’Italia e d’Europa. Se quindi è necessario cercare una alternativa alla spregevole dominazione sabauda, l’esperienza del 1799 è ben più meritevole della stagione borbonica. In egual modo è incomprensibile, se non per dichiarato anticomunismo, l’odio che si riversa contro il povero Giuseppe Garibaldi, il quale ha sempre rappresentato le istanze più avanzate e attente al popolo di tutto il Risorgimento italiano. Garibaldi, amico di Karl Marx, membro della Prima Internazionale, padre della famosa frase “il socialismo è il sol dell’avvenire”, non merita di vedere le vie e le piazze a lui intestate prese a martellate. È stato ingenuo, ha accettato compressi come quando ha ceduto in Sicilia alle richieste degli inglesi, che avevano coperto il suo sbarco, quando gli hanno imposto di uccidere i contadini di Bronte, anche perché i padroni di quelle terre erano i britannici, ma ha agito ogni volta che ha potuto nel solco delle più autentiche istanze progressive. Le vie da rimuovere e martellare son quelle dedicate a Vittorio Emanuele II, a Umberto I a Vittorio Emanuele III, sì pure lui, quello delle leggi razziali e dell’avvento del fascismo, ha una marea di vie a lui dedicate al Sud e pure un istituto superiore palermitano. Che vengano rinominate pure le vie dedicate a Cavour, Ricasoli, Minghetti, La Marmora, Menabrea, Lanza, i presidenti del consiglio del sacco colonialista ai danni del Meridione, ma che la si smetta, cari amici, di tirare in mezzo Garibaldi, umiliato come i suoi volontari in camicia rossa dai Savoia dopo l’impresa dei Mille, relegato a Caprera dopo che il regio esercito l’aveva mezzo ammazzato sull’Aspromonte. Insomma, se si vuol far polemica e si vuole con giuste motivazioni riscrivere la storia e cambiare i nomi delle vie che si proceda. Per un secolo e mezzo abbiamo creduto a falsificazioni che non meritano di perdurare. Restituiamo però a Giuseppe Garibaldi e a quei giovani che hanno creduto possibile un’Italia unita, immaginandola più giusta e capace di offrire a ciascuno, nessuno escluso, una possibilità per migliorarsi e vivere meglio, il giusto e meritato rispetto.