Il 18 aprile del compagno poeta Umberto Saba

di Davide Rossi

 


Umberto Saba nasce in via di Riborgo il 9 marzo 1883. Trieste è la sua città, azzurra, bella tra i monti rocciosi e il mare luminoso, di una scontrosa grazia. A ventun’anni scrive corrispondenze per il giornale socialista di Trieste il Lavoratore e nel 1919 acquista un piccolo di antichi libri raro negozietto in via San Nicolò. Nel 1938 con intelligenza premonitrice resta sconvolto dall’atteggiamento benevolo di tanti francesi verso il nazismo e ne conclude amaramente l’avvicinarsi della tragedia. Per le leggi razziali è costretto a cedere l’anno seguente l’attività libraria all’amico Carlo Cerne, già suo collaboratore dal 1924, e a trasferirsi  a Firenze con la famiglia dove, grazie alla copertura offertagli dagli amici  Eugenio Montale, Carlo Levi, autore di Cristo si è fermato a Eboli, Mario Spinella e Ottavio Cecchi, riuscirà ad attendere incolume la Liberazione della città nel 1944. Si avvicina al PCI e manifesta stima ammirazione e affetto per Palmiro Togliatti che vorrebbe vedere governare  il paese. Con il trovarsi nell’Italia liberata sorge in lui il desiderio di comporre alcune riuscite poesie politiche di forte intensità e di chiari sentimenti democratici. Dopo Avevo: Tutto mi portò via il fascista abbietto e il tedesco lucro, sempre nel 1944 è la volta della celebre composizione Teatro degli Artigianelli: Falce e martello e la stella d’Italia ornano nuovi la sala, povera rappresentazione aperta dalle parole di un giovane compagno che promuove tra i presenti l’idea che gli animi affratella, mentre Firenze è ancora assorta nelle sue rovine. In quella felice occasione insieme a Saba c’è Carlo Levi che in seguito ricorderà scherzosamente come la stella rossa del teatro fosse richiamo all’Unione Sovietica e all’Armata Rossa. Il poeta risponderà divertito di aver precorso gli avvenimenti in quanto il nuovo simbolo del PCI avrebbe portato anche una stella. Nel dopoguerra Saba soffre per la sorte di Trieste. Dopo che la città è dichiarata Territorio Libero scrive: diventerà – come la Palestina della malora  - uno degli inferni del mondo. Comunque vi fa ritorno nel 1947 e si propone provocatoriamente come Governatore, con il proposito di restituire alla città il suo carattere molto allegro e un po’ nevrotico. In questo stesso anno si accrescono i timori di Saba rispetto al lento vanificarsi di tante speranze riposte nel vento della Resistenza. Il poeta teme di non essere compreso dalla nuova Italia: Trieste, cioè la mia poesia, è azzurra. Altro è il colore che paventa per la penisola. Teme la Democrazia Cristiana e l’abile riciclarsi sotto lo scudo crociato di tanti fascisti. Scrive Opicina 1947: Risalii quest’estate ad Opicina. Era con me un ragazzo comunista. Tito sui muri s’iscriveva, in vista, sotto, della mia bianca cittadina. … “Dopo il nero fascista il nero prete; questa è l’Italia, e lo sai. Perché allora – diceva il mio compagno – aver rimpianti?” Contro quella che definisce la dittatura dei preti aderisce per le elezioni del 18 aprile 1948 al Fronte della cultura popolare che sostiene la lista di Garibaldi formata da socialisti e comunisti. Prevede la sconfitta elettorale e  vive i primi mesi del 1948 in uno stato di particolare agitazione. Le sue preoccupazioni si moltiplicano, ma non fiaccano le sue convinzioni, il primo marzo scrive a Vittorio Sereni: se da una parte vedessi i preti pronti a incensarmi e dall’altra il plotone d’esecuzione comunista, sceglierei ancora quest’ultimo. La vittoria di De Gasperi lo convince a sospendere la collaborazione con riviste e quotidiani. Scrive: La contemporaneità dà quello che può e l’Italia non ha mai capita Trieste. Nessuno capirà mai nulla di me; l’Italia mi ha perduto come ha perduto Trieste. Perché, se la mia poesia è  - come ogni poesia – “un’interpretazione del mondo”, questo mondo è veduto da Trieste, non da Cesena o da Predappio, o da Firenze. E nemmeno da Roma. È già “l’altro mondo” quello che gli italiani non possono assimilare. Ovviamente per le sue tradizioni mitteleuropee e slave, nonché per essere diventata confine con quel campo socialista oggetto di un furibondo attaccato culturale da parte dell’occidente. L’amico Vittorio Sereni ricorda il dolore e il dramma con cui Saba vive a Milano i giorni successivi all’esito elettorale che aveva visto il Fronte Popolare raggiungere solo il 31% dei consensi. Sereni scrive addirittura una poesia intitolata Saba: E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile, lo vidi errare da una piazza all’altra dall’uno all’altro caffè inseguito dalla radio. “Porca - vociferando – porca.” Lo guardava stupefatta la gente. Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna che ignara o no a morte ci ha ferito.

Rientrato nella città giuliana, fuori dall’Italia, compone poesie sugli uccelli, che con la quotidianità e Trieste, tristezze molte e bellezze del cielo, spesso azzurra come il golfo luminoso, sono tra i suoi temi ricorrenti. La prima delle Dieci poesie per un canarino tuttavia è sottotitolata A un giovane comunista e vi si legge: Ho in casa – come vedi – un canarino. … Ma tu pensi: I poeti sono matti. Guardi appena lo trovi stupidino. Ti piace più Togliatti. 

Straordinaria quindi anche se spesso dimentica è la passione politica di Saba, poeta che, già in gioventù aveva scritto: quel rosso in me speranza e fede ravviva, come in campo una bandiera.


Con Opicina 1947 Saba sa che potrebbe destare l’ira di Dio, un dio ovviamente democristiano, e preferisce tenerla inedita, all’amico e critico Giacomo Debenedetti scrive: oggi è impubblicabile. Paventa per di più il pericolo che la DC possa trovare la strada per sopprime il Canzoniere che nel 1948 dovrà uscire, riveduto e corretto per Einaudi.

Letta Opicina 1947 Debenedetti la giudica un sonetto politicamente audace, massime per uno che vive a Trieste.   

 

 

 

 

OPICINA 1947

 

Risalii quest’estate ad Opicina.

Era con me un ragazzo comunista.

Tito sui muri s’iscriveva, in vista,

sotto, della mia bianca cittadina.

 

Nell’ora dei ricordi vespertina

Sedemmo all’osteria, che ancor m’attrista,

oggi, se penso quella camerista

che ci servì con volto d’assassina.

 

Due vecchie ebree, testarde villeggianti,

io, quel ragazzo, parlavamo ancora

lassù italiano, tra i sassi e l’abete.

 

“Dopo il nero fascista il nero prete;

questa è l’Italia, e lo sai. Perché allora –

diceva il mio compagno – aver rimpianti?”

 

 

Umberto Saba

 

 

 

al testo il poeta fa seguire una nota:

 

“Camerista” per cameriera, anzi servente d’osteria, mi piace poco. Ma il sonetto mi nacque di getto; e – arrivando alla parola che io stesso incrimino – questa, sbucata da chissà quale angolo della mia memoria, soccorse (male) alla necessità della rima. Pensai per ora la lascio; poi rimedierò. Rimediare non ho più saputo: anzi tutti i rimedi tentati risultarono peggiori del male. Cercai allora (mi perdoni la Musa) di persuadermi che, pure così disvoluta, l’infelice parola potesse essere quasi una “bellezza”; una specie di riuscita acrobazia, sebbene fuori dalla mia poetica. E che magari, la poesia reggesse su quella rima carpita … 

 

(n.8-2001)