Umberto
Saba nasce in via di Riborgo il 9 marzo 1883. Trieste è la sua
città, azzurra, bella tra i monti rocciosi e il mare luminoso, di una scontrosa grazia.
A ventun’anni scrive corrispondenze per il giornale socialista
di Trieste il Lavoratore e nel 1919 acquista un piccolo di antichi libri raro negozietto
in via San Nicolò. Nel 1938 con intelligenza premonitrice resta
sconvolto dall’atteggiamento benevolo di tanti francesi verso
il nazismo e ne conclude amaramente l’avvicinarsi della tragedia.
Per le leggi razziali è costretto a cedere l’anno seguente l’attività
libraria all’amico Carlo Cerne, già suo collaboratore dal 1924,
e a trasferirsi a Firenze
con la famiglia dove, grazie alla copertura offertagli dagli
amici Eugenio Montale,
Carlo Levi, autore di Cristo
si è fermato a Eboli, Mario Spinella e Ottavio Cecchi, riuscirà
ad attendere incolume la Liberazione della città nel 1944. Si
avvicina al PCI e manifesta stima ammirazione e affetto per Palmiro Togliatti che vorrebbe vedere
governare il paese. Con il trovarsi nell’Italia liberata
sorge in lui il desiderio di comporre alcune riuscite poesie
politiche di forte intensità e di chiari sentimenti democratici.
Dopo Avevo: Tutto mi portò via il fascista abbietto e il tedesco lucro, sempre
nel 1944 è la volta della celebre composizione Teatro degli Artigianelli: Falce
e martello e la stella d’Italia ornano nuovi la sala, povera
rappresentazione aperta dalle parole di un giovane compagno
che promuove tra i presenti l’idea
che gli animi affratella, mentre Firenze è ancora assorta
nelle sue rovine. In quella felice occasione insieme a Saba
c’è Carlo Levi che in seguito ricorderà scherzosamente come
la stella rossa del teatro fosse richiamo all’Unione Sovietica
e all’Armata Rossa. Il poeta risponderà divertito di aver precorso
gli avvenimenti in quanto il nuovo simbolo del PCI avrebbe portato
anche una stella. Nel dopoguerra Saba soffre per la sorte di
Trieste. Dopo che la città è dichiarata Territorio Libero scrive:
diventerà – come la Palestina della malora - uno degli inferni del mondo. Comunque vi fa ritorno nel 1947
e si propone provocatoriamente come Governatore, con il proposito
di restituire alla città il suo carattere molto allegro e un
po’ nevrotico. In questo stesso anno si accrescono i timori
di Saba rispetto al lento vanificarsi di tante speranze riposte
nel vento della Resistenza. Il poeta teme di non essere compreso
dalla nuova Italia: Trieste,
cioè la mia poesia, è azzurra. Altro è il colore che paventa
per la penisola. Teme la Democrazia Cristiana e l’abile riciclarsi
sotto lo scudo crociato di tanti fascisti. Scrive Opicina
1947: Risalii quest’estate
ad Opicina. Era con me un ragazzo comunista. Tito sui muri s’iscriveva,
in vista, sotto, della mia bianca cittadina. … “Dopo il nero
fascista il nero prete; questa è l’Italia, e lo sai. Perché
allora – diceva il mio compagno – aver rimpianti?” Contro
quella che definisce la dittatura dei preti aderisce per le
elezioni del 18 aprile 1948 al Fronte della cultura popolare
che sostiene la lista di Garibaldi formata da socialisti e comunisti.
Prevede la sconfitta elettorale e
vive i primi mesi del 1948 in uno stato di particolare
agitazione. Le sue preoccupazioni si moltiplicano, ma non fiaccano
le sue convinzioni, il primo marzo scrive a Vittorio Sereni:
se da una parte vedessi i preti pronti a incensarmi
e dall’altra il plotone d’esecuzione comunista, sceglierei ancora
quest’ultimo. La vittoria di De Gasperi lo convince a sospendere
la collaborazione con riviste e quotidiani. Scrive: La
contemporaneità dà quello che può e l’Italia non ha mai capita
Trieste. Nessuno capirà mai nulla di me; l’Italia mi ha perduto
come ha perduto Trieste. Perché, se la mia poesia è
- come ogni poesia – “un’interpretazione del mondo”,
questo mondo è veduto da Trieste, non da Cesena o da Predappio,
o da Firenze. E nemmeno da Roma. È già “l’altro mondo” quello
che gli italiani non possono assimilare. Ovviamente per
le sue tradizioni mitteleuropee e slave, nonché per essere diventata
confine con quel campo socialista oggetto di un furibondo attaccato
culturale da parte dell’occidente. L’amico Vittorio Sereni ricorda
il dolore e il dramma con cui Saba vive a Milano i giorni successivi
all’esito elettorale che aveva visto il Fronte Popolare raggiungere
solo il 31% dei consensi. Sereni scrive addirittura una poesia
intitolata Saba: E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,
lo vidi errare da una piazza all’altra dall’uno all’altro caffè
inseguito dalla radio. “Porca - vociferando – porca.” Lo guardava
stupefatta la gente. Lo diceva all’Italia. Di schianto, come
a una donna che ignara o no a morte ci ha ferito.
Rientrato
nella città giuliana, fuori dall’Italia, compone poesie sugli
uccelli, che con la quotidianità e Trieste, tristezze
molte e bellezze del cielo, spesso azzurra come il golfo luminoso, sono tra i suoi temi ricorrenti. La prima delle Dieci poesie per un canarino tuttavia è
sottotitolata A un giovane
comunista e vi si legge: Ho
in casa – come vedi – un canarino. … Ma tu pensi: I poeti sono
matti. Guardi appena lo trovi stupidino. Ti piace più Togliatti.
Straordinaria
quindi anche se spesso dimentica è la passione politica di Saba,
poeta che, già in gioventù aveva scritto: quel
rosso in me speranza e fede ravviva, come in campo una bandiera.
Con Opicina 1947 Saba sa che potrebbe destare l’ira di Dio, un dio ovviamente democristiano, e preferisce
tenerla inedita, all’amico e critico Giacomo Debenedetti scrive:
oggi è impubblicabile. Paventa per di più
il pericolo che la DC possa trovare la strada
per sopprime il Canzoniere
che nel 1948 dovrà uscire, riveduto e corretto per Einaudi.
Letta Opicina 1947 Debenedetti la giudica un sonetto politicamente audace, massime per uno che vive a Trieste.
OPICINA
1947
Risalii quest’estate
ad Opicina.
Era con me un
ragazzo comunista.
Tito sui muri
s’iscriveva, in vista,
sotto, della
mia bianca cittadina.
Nell’ora dei
ricordi vespertina
Sedemmo all’osteria,
che ancor m’attrista,
oggi, se penso
quella camerista
che ci servì
con volto d’assassina.
Due vecchie ebree,
testarde villeggianti,
io, quel ragazzo,
parlavamo ancora
lassù italiano,
tra i sassi e l’abete.
“Dopo il nero
fascista il nero prete;
questa è l’Italia,
e lo sai. Perché allora –
diceva il mio
compagno – aver rimpianti?”
Umberto Saba
al testo il poeta
fa seguire una nota:
“Camerista” per
cameriera, anzi servente d’osteria, mi piace poco. Ma il sonetto
mi nacque di getto; e – arrivando alla parola che io stesso
incrimino – questa, sbucata da chissà quale angolo della mia
memoria, soccorse (male) alla necessità della rima. Pensai per
ora la lascio; poi rimedierò. Rimediare non ho più saputo: anzi
tutti i rimedi tentati risultarono peggiori del male. Cercai
allora (mi perdoni la Musa) di persuadermi che, pure così disvoluta,
l’infelice parola potesse essere quasi una “bellezza”; una specie
di riuscita acrobazia, sebbene fuori dalla mia poetica. E che
magari, la poesia reggesse su quella rima carpita …
(n.8-2001)